In questo tempo, verso la Pasqua 2020, sembra che parlare di “cultura della cura” sia una sfida impossibile: le pagine dei giornali parlano di psicosi e di panico legati alla diffusione del nuovo Coronavirus in Italia e nel mondo, le parole più consuete sono intolleranza, chiusura dei confini, solitudine…
Oggi, il Papa ci invita a rinunciare alla violenza verbale e ad andare con Gesù su un “cammino di carità” che abbraccia gli ultimi e nell’enciclica “Laudato Sì” parla di “cultura della cura”: cambiare la mentalità, creare cultura significa prima di tutto educare, cioè non solo trasmettere messaggi verbali sani, positivi, ma agire in modo concreto. «Significa chinarsi su chi ha bisogno e tendergli la mano, senza calcoli, senza timore, con tenerezza e comprensione, come Gesù si è chinato a lavare i piedi agli apostoli. Significa lavorare a fianco dei più bisognosi, stabilire con loro prima di tutto relazioni umane, di vicinanza, legami di solidarietà». (dal messaggio di Papa Francesco per il lancio del Patto educativo).
Non possiamo dire che Madre Francesca, già nell’800, non abbia fatto così: quando anche in Germania si erano diffuse epidemie di colera, vaiolo e tifo, lei e le sue suore non si sono mai tirate indietro, rimboccandosi le maniche, prendendosi cura dei malati e dei poveri, atteggiamenti che hanno lasciato un segno nella mentalità del tempo. Il parroco di Aquisgrana, il canonico Buschmann, colpito dal vaiolo nel marzo 1866, racconta: «Senza che io neppure lontanamente l’avessi pensato e chiesto, madre Francesca fece mettere a mia disposizione due stanze nella così detta Casa Kirschschen e lì mi curò premurosamente per tre settimane, cosicché la domenica di Pasqua potevo nuovamente celebrare messa. La gentilezza, la carità con cui fui assistito e servito in questo periodo così difficile da colei che ormai vive nell’Infinito, mi rimarrà indimenticabile per sempre… Prescindendo da questo mio caso, madre Francesca mi ha sempre edificato per il suo carattere lineare, unito a una gioia quasi infantile, a una serenità senza turbamenti, frutti questi di una profonda pace divina». (Jeiler, parte III, cap. 5, pag. 359).
Amore concreto, dunque, misto a gentilezza e purezza di cuore: sono segno di una profonda esperienza spirituale di Amore ricevuto e donato.
Anche noi, oggi, come singoli cristiani e come comunità abbiamo il compito sanante di incarnare nei nostri gesti di cura il Dio compassionevole che annunciamo nel vangelo, e che può contrastare il male e restituire il bene. Da qui nasce un comune inno di lode, una festa ove la stessa morte appare non più nemica, ma sorella. Arduo tutto questo, ma non impossibile...
sr Carla Casadei, sfp